Il giudizio del Bettinelli sull’Alfieri (1957)

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1957, pp. 62-65; poi in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit., e in Studi alfieriani (1995).

Il giudizio del Bettinelli sull’Alfieri

Rilevai già nel capitolo dedicato al Bettinelli nel mio Preromanticismo[1] il giudizio stroncatorio che lo scrittore mantovano dette dell’Alfieri nella sua Lettera del 1790 al De Giovanni[2], giudizio significativo per i limiti della comprensione e accettazione bettinelliana di una personalità rivoluzionariamente preromantica e significativo insieme, come ha indicato giustamente anche il Cappuccio nel suo profilo di storia della critica alfieriana[3], in quanto «apre [...] la serie dei tanti critici che hanno visto nell’Alfieri piú un oratore di libertà che un poeta». Desidero ora riprendere quel giudizio e insistere ancor piú sull’importanza che esso ha nella fase dei giudizi contemporanei sull’opera tragica alfieriana come momento di decisiva svolta rispetto ai dissensi piú esteriori e formalistici dei letterati settecenteschi fermi al rilievo delle caratteristiche piú insolite del linguaggio alfieriano o agli aspetti piú vistosi della sua costruzione drammatica[4].

Il giudizio del Bettinelli supera decisamente questo mediocre piano di critica e mostra oltretutto l’acutezza consequenziaria, la forza polemica del critico anche in questa fase della sua attività, quando egli, superate le sue esperienze piú ardite in direzione illuministica e preromantica, nella sua adesione senile al tradizionalismo letterario piú chiaramente sviluppa il suo conservatorismo di gesuita reso piú abile ed acuto dal suo passaggio entro la cultura razionalistica e illuministica[5].

Ed ora con il suo ingegno sottile e la sua complessa esperienza letteraria e ideologica egli si rivolgeva a demolire l’Alfieri, di cui ben vedeva l’eccezionale significato rivoluzionario in sede etico-politica e poetica[6].

In quelle pagine acutissime, in cui un penetrante razionalismo si allea con forme gesuitiche di ironia e di apparente umiltà, il Bettinelli[7] partiva da un omaggio al «nostro Sofocle», che professava di venerare, ma subito, proprio da questo omaggio e da una dichiarazione della propria umiltà che calcolava la reversibilità in ironia di ogni parola, egli passava ad attaccare ironicamente la poesia alfieriana nella sua accertata, ma inaccettabile novità: «E chi può nulla pretendere in faccia agli eroi del secol nuovo, di cui neppure un’idea s’ebbe nel nostro passato omai? Ciel nuovo e terra nuova di leggi, di governi, di condizioni, di costumi, e quindi ancor di letteratura, di gusti, di pensieri, di stili. Accuso i miei pregiudizj del non lasciarmi gustare le sublimi tragedie, che ammiro, né sentir nel cuore gli affetti, che vogliono ispirarmi»[8].

E poiché quegli affetti che le tragedie «vogliono» (si badi bene al verbo che implica la condanna di un’opera oratoria, volontaristica, non poetica) ispirare sono cosí diversi da quelli che l’autore dell’Entusiasmo delle belle arti aveva ben saputo sentire in Racine o nel Libro IV dell’Eneide (poesia altamente tragica, ma ricca di “patetico” e di armoniosa dolcezza), il Bettinelli concluderà: «O quei poeti non son poeti, o non l’è Alfieri sicuramente»[9]. E se non è poeta? Da un incisivo e maligno ritratto dell’uomo si potrà ricavare «un carattere poco atto a poesia spontanea, dono gratuito di felice natura, e fatto appunto natura. [...] Questi è un politico, che vuol fare il poeta»[10]. Perciò nella sua opera «tutto è prosa»[11] (e a un certo punto viene consigliato all’Alfieri di darsi al romanzo!), e d’altra parte la sua stessa posizione politica rompe tutta una tradizione di rapporti fra poeti e potenti della terra e contraddice, anche da questo punto di vista di condizioni tipiche della vita del poeta, alla sua pretesa di vocazione poetica: «I gran poeti [...] son pacifici, non vivon d’odio, abborrono il sangue, e non fan mai congiure né alla corte né al tavolino, ove talor le verseggiano felicemente. Saranno anime basse, cuori timidi, gente da nulla pe’ moderni eroi, ma fan de’ poemi e delle tragedie immortali e veramente poetiche, mentre quell’anime grandi, que’ cuori indipendenti, quella gente odiatrice de’ dominj per dominar col nome di libertà, pronuncieranno delle sentenze, vibreran gran pensieri, slanceran lampi e fulmini di passioni tetre e cupe [...] con frasi energiche, con versi studiati e forzati, ma non poetici»[12].

Dove si chiarisce bene l’assoluta incompatibilità nella concezione stessa di letteratura e poesia fra il Settecento ammiratore di Federico II di Prussia e l’autore del trattato Del Principe e delle lettere, fra il letterato cortigiano e l’Alfieri che nel ritratto dell’uomo libero preciserà: «Né visto è mai dei Dominanti a lato»[13].

Ma, piú in profondo, la stroncatura conseguente e spietata dell’intelligentissimo conservatore gesuitico, che finiva tendenziosamente per limitare le tragedie alfieriane a quelle piú tipicamente politiche stroncando la Mirra e trascurando il Saul, ci interessa come inizio di una interpretazione critica e polemica che con diversissime giustificazioni nega la poesia alfieriana riducendola ad oratoria politica, ad opera di intelletto e di volontà, riconducendo i primi rilievi sulla durezza dello stile, sulla mancanza di armonia a motivi piú intimi di astrattezza intellettualistica, di predominio della volontà sulla fantasia, di natura impoetica, o addirittura trascurando quelle prime accuse come esteriori e superficiali di fronte alla accusa centrale di una nucleare mancanza di poesia («un politico, che vuol fare il poeta», «un filosofo, non un poeta»).

Come fa appunto il Bettinelli che, alla fine del suo saggio, cosí limpido ed energico nella sua tendenziosità e nella sua animosità polemica, avvertirà chiaramente che egli non si ferma alle accuse piú comuni allo stile alfieriano e trasformerà la stessa constatazione di uno sforzo dello scrittore nelle correzioni dell’edizione parigina[14] in un nuovo motivo di riprova della impoeticità e della volontarietà dell’Alfieri: «Né l’accuso già io d’oscurità, e di durezza, come i critici volgari nelle tragedie da lui emendate secondo il suo genio, e l’altrui, quando siano ben lette e recitate; accuso la lima piuttosto che le ha lisciate, e ripulite senza potervi infondere il genio poetico, e facendogli credere, che lo studio far potesse un poeta d’un uomo nato a tutt’altro»[15]. E le stesse difese e scuse dell’Alfieri vengono adoperate contro di lui con un moto sempre piú impaziente e reciso: «Non è già la dolcezza in supremo grado, che gli manchi, com’egli dice, né che si cerchi da noi nel tragico, non è lo stil lirico no, egli è il poetico, che manca a queste tragedie non solo, ma alla sua lirica eziandio»[16].

L’antipatia per il poeta della libertà, per il fautore di una nozione di letteratura come necessariamente anticonformista e libera da ogni legame con il potere politico, si congiungeva nel Bettinelli con l’avversione per una poesia che superava i limiti di accettazione del suo gusto settecentesco e lo inquietava con il suo significato profondamente rivoluzionario anche in campo strettamente estetico, specie in un periodo in cui egli aveva fortemente ridotto i suoi slanci preromantici documentati nel precedente trattato sull’entusiasmo[17].

E cosí il saggio del Bettinelli, mentre precisa la naturale reazione dei letterati settecenteschi, implica l’avvio di una corrente critica che, animata dall’antipatia per la posizione politica alfieriana, tenderà a svalutarne la poesia, a ridurla ad oratoria e ad intellettualismo: errore in cui in parte converranno anche spiriti piú liberi, ma dominati dai motivi romantici della spontaneità assoluta, della gratuità della poesia che essi finivano per non trovare nel grande Alfieri, attratti dalle accuse vistose della volontarietà ed astrattezza e incapaci d’altra parte di ritrovare la poesia sotto l’aspetto etico-politico, che a quella era invece legato da una sostanziale unità di radice sentimentale e passionale.


1 Cit., p. 67.

2 Si legge in S. Bettinelli, Opere edite ed inedite in prosa ed in versi, seconda edizione, Riveduta, ampliata, e corretta dall’Autore. Tomo XX, Venezia, presso Adolfo Cesare, 1801, pp. 231-246.

3 In I classici italiani nella storia della critica, da me diretti, vol. II, Firenze, La Nuova Italia, 1955 (19705), p. 199.

4 Come appare sinteticamente in quella parodia Socrate, pubblicata a Firenze nel 1788 (con il falso luogo di Londra), che – senza contenere in germe, come parve a G. Mazzoni, In Biblioteca. Appunti, Roma, Casa Editrice A. Sommaruga e C., 1883, p. 73, «tutte, o quasi, le critiche dibattute fra il Carmignani, il De Coureil, il Marré e lo Schedoni» – precisa, non senza spirito, una disposizione vulgata di critica negativa di classicisti e linguaioli di fronte all’edizione alfieriana dell’83.

5 Che, d’altra parte, la posizione antialfieriana del Bettinelli fosse – pur nello stimolo forte della coincidenza tra la pubblicazione dell’edizione Didot delle tragedie e lo scoppio della Rivoluzione francese – ben piú che il risultato di un risentimento occasionale e corrispondesse ad una vera convinzione (radicata insieme in ragioni di gusto già vive a lor modo, come accennerò poi, nello stesso maggiore slancio preromantico dell’Entusiasmo), lo dimostra anche la persuasa persistenza con cui il critico la difese anche in anni piú tardi contro le obiezioni del Pindemonte (v. le lettere del Bettinelli e le repliche del Pindemonte, 20 giugno 1803, 4 giugno 1807).

6 Si noti poi che il «parere» sull’Alfieri nasceva in un momento di accesa tensione politica nella reazione agli avvenimenti rivoluzionari di Francia, sicché, annunciandone l’invio al Tiraboschi perché la pubblicasse sul «Giornale dei Letterati» (e il Tiraboschi la pubblicò effettivamente ma facendo «delle incisioni su qualche passo troppo agro per i francesi e pel conte» – v. Carteggio fra G. Tiraboschi e C. Vannetti (1776-1793), per cura di G. Cavazzuti e F. Pasini, in Modena, presso Giovanni Ferraguti & Compagni, 1912, p. 311 nota), il Bettinelli sottolineava il carattere di polemica ideologica del suo scritto: «Alfieri [...] è un fanatico per la libertà nelle sue prose e tragedie dell’edizione di Parigi. Se v’è tempo pel Giornale ve ne manderò un mio parere curioso per tal fenomeno d’apostolato tragico contro i sovrani» (ibid.).

7 Il Bettinelli aveva comunque accettato in sede storica l’importanza della nuova presenza alfieriana nel teatro italiano, e nella ristampa dell’88 del discorso Del teatro italiano (che è del ’71 e in cui si lamentava l’assenza di una vera tragedia italiana) annotava: «Questo sommo genio è già comparso, dopo ch’io scrissi, nel Conte Alfieri, e i suoi difetti da me notati piú volte a prò de’ giovani imitatori nol tolgon dal primo seggio del teatro italiano» (Opere edite ed inedite, Tomo XIX, Venezia, presso Adolfo Cesare, 1800, p. 80). Cosí come, in maniera certo piú sincera anche se in forma prudentemente dubitativa, il Cesarotti ristampando il Mercurius de poëtis tragicis, in cui aveva pure lui lamentato la mancanza di tragici italiani, aggiungeva che post editas V. Alfieri tragoedias praeco Musarum aliter fortasse senserit.

8 Lettera al sig. Canonico de Giovanni cit., pp. 231-232.

9 Ivi, pp. 232-233.

10 Ivi, pp. 235 e 236.

11 Ivi, p. 237.

12 Ibid.

13 Son. 288, v. 8; Rime cit., p. 234. Cosí si comprende lo sdegno del Bettinelli e di altri letterati fautori del letterato cortigiano, del poeta cesareo o del poeta al servizio dei programmi riformatori dei sovrani assoluti, di fronte alla Congiura de’ Pazzi, che osava ridurre i “mecenati” fiorentini, i Medici, a volgari italiani. L’Alfieri era per loro un mistificatore di storia, l’interessato «capopopolo» sovversivo che poteva piacere solo ai «moderni repubblichisti» e che infrangeva insieme la loro concezione politica e il loro ideale idillico-conservatore del letterato al servizio del potere, ossequiente alle leggi del trono e dell’altare.

14 Del piú comune compiacimento dei letterati italiani di fronte alle correzioni dell’edizione Didot è espressione il giudizio del Napoli Signorelli, che nel tomo di Addizioni (1798) alla sua Storia critica de’ teatri antichi e moderni (i precedenti giudizi nel corso dell’opera sono notevoli perché a parte le solite riserve sullo stile, «duro», coincidono con la celebre indicazione pariniana dello scavo alfieriano nel «cupo, ove gli affetti han regno» nel riconoscere le capacità alfieriane di «investigar nel cuore umano le arcane sorgenti degli affetti» – tomo VI, in Napoli, Presso Vincenzo Orsino, 1790, p. 218) trovava nelle correzioni delle prime tragedie e soprattutto nelle nuove tragedie dell’edizione parigina «miglioramento notabile nello stile, divenuto piú naturale senza perdere di grandezza, nella versificazione piú scorrevole senza allontanarsi dal suo genere, nella lingua tersa ed elegante senza sacrificare la grazia nativa per lo studio di esser cruschevole, nell’economia piú giudiziosa per l’entrare dei personaggi accresciuto, che rende l’azione piú verisimile senza la noiosità dei confidenti» (p. 239 del tomo Addizioni, nel quale è anche notevole l’indicazione della Mirra come «la tragedia che meglio scopre i rari talenti tragici» dell’Alfieri; ivi, p. 225).

15 Lettera al sig. Canonico de Giovanni cit., pp. 239-240.

16 Ivi, p. 243.

17 Si ricordi poi che nell’Entusiasmo (Opere edite ed inedite, Tomo III, Venezia, presso Adolfo Cesare, 1799, p. 164), il Bettinelli considerava piú atte a destare commozione le «scene mirabili per gli affetti sí ben dipinti» (affetti di tenerezza familiare, amore, dolore, ecc.) che non «amor della libertà», «odio de’ tiranni», «fatalismo degli eroi». Dove pare preannunciata la radice piú generale della sua avversione per l’Alfieri, la denuncia di quello che appariva al Bettinelli un equivoco scambio fra veri sentimenti poetici e passione politica, fra calore del «cuore» e calore «di sangue», «d’odio, di zelo, d’amor di gloria, e di libertà». Donde il carattere sforzato e velleitario che avrebbero nelle tragedie alfieriane «gli effetti piú commoventi, e veramente caldi d’amor figliale paterno materno» che, dice il Bettinelli, «non m’han tocco il cuore giammai, benché mi paresse scritto in ogni margine: Quí si piange» (Lettera cit., p. 241).